Venticinque pagine fitte di analisi, dati, nomi, riferimenti con passaggi molto interessanti, alcuni noti altri meno, sulle dinamiche stragiste. È la relazione che l’allora direttore della Dia Gianni De Gennaro ha inviato al ministro dell’Interno Nicola Mancino il 10 agosto del 1993. Una relazione che viene in parte pubblicata subito sui giornali e che fa molto irritare il presidente della commissione Stragi Libero Gualtieri che se ne lamenta con lo stesso De Gennaro che viene sentito all’inizio di quel settembre. Poi il 14 settembre il ministro dell’Interno invia il documento alla commissione Antimafia guidata da Luciano Violante.

Riletta oggi, a distanza di vent’anni, colpiscono le tante verità a portrata di mano che sono state sottovalutate o dimenticate. Se nme riparlerà nei prossimi mesi in commissione Antimafia: De Gennaro, oggi sottosegretario, sarà infatti ascoltato. La data è da definire: il presidente dell’Antimafia Beppe Pisanu vi sta lavorando. Ma cosa dice quel documento? «Già subito dopo la strage di via D’Amelio – si legge – la Dia aveva prospettato l’ipotesi che Cosa nostra fosse divenuta comnpartecipe di un progetto disegnato e gestito insieme a un potere criminale diverso e più articolato. Progetto inteso non già come programma definito nei particolari bensì come disegno di massima da sviluppare nel tempo, valutando attentamente l’impatto di ciascun passaggio all’interno dell’organizzazione e sull’opinione pubblica nonché la probabilità di effetti di ritorno dannosi. L’omicidio del giudice Borsellino e della sua scorta, pur essendo stato consumato in un contesto operativo riconducibile all’azione della mafia, tradiva a una attenta lettura l’intenzione dei mandanti di perseguire obiettivi che andavano al di là degli interessi esclusivi di Cosa nostra». Questo paragrafo (il terzo) si chiude così: «Fu proprio a margine dell’attentato di Via D’Amelio che la Dia prospettò per la prima volta in modo esplicito l’ipotesi che stesse maturando all’interno di Cosa nostra e degli altri poteri a essa collegati una vera e propria scelta stragista dai contorni indefiniti ma chiaramente proiettata verso uno scontro frontale e violento con le istituzioni».
La campagna di disinformazione
Mentre il gruppo di investigatori guidato da Arnaldo La Barbera opera a Palermo (arresta per esempio Scarantino) e mette in piedi il meccanismo che porterà alla costruzione dell’Orsacchiotto con le batterie (tanto per citare il titolo di un libro recente dedicato al falso pentito della Guadagna), secondo la relazione di De Gennaro accadevano nel paese altre cose molto inquietanti ma soprattutto vi era una campagna di disinformazione che viene annunciata da Tommaso Buscetta con una intervista roilasciata a dicembre del 1992 al quotidiano La Repubblica. Buscetta dice: finché tale strategia sarebbe stata in atto si sarebbero fermate le bombe «per ricominciare successivamente. La ripresa della strategia stragista, secondo il pentito, sarebbe stata improntata alle metodologie proprie dei narcotrafficantes colombiani, con l’utilizzo di bombe contro innocenti e con l’attuazione di attentati contro alte cariche dello Stato».
L’agenzia di stampa Repubblica
Le azioni di disinformazione e delegittimazione arrivano immediatamente. Lo stesso Salvatore Riina «dal momento del suo arresto, inizia a lanciare messaggi delegittimanti e carichi di disprezzo nei confronti dei collaboratori di giustizia». in questo clima torbido vengono diffuse notizie senza fondamento come quella, falsa, secondo la quale il noto finanziere svizzero Jurger Heer, già responsabile del settore crediti della Rothshild Bank di Zurigo e apparentemente al corrente di numerosi segreti del mondo finanziario e politico italiano (dal Caso Calvi alla P29 fosse custodito dalla Dia, provocatoriamente definita servizio segreto antimafia, in una località segreta all’insaputa dei magistrati. Indovinate chi si fa portavoce di questa campagna di disinformazione? «L’agenzia giornalistica Repubblica (da non confondere con il quotidiano repubblica ndr)» quella stessa che alla vigilia della strage di Capaci ha parlato del grande botto che sarebbe arrivato. Il botto che ha ucciso Giovanni Falcone. Un’agenzia attorno alla quale, spiega nella sua relazione De Gennaro, gravitano personaggi già legati a Mino Pecorelli e che ha come referente il gruppo politico dell’onorevole Vittorio Sbardella (corrente andreottiana e collegamenti nel fronte della destra più o meno eversiva) e come direttore Lando Dell’Amico, «già legionario della X Mas di Junio Valerio Borghese e successivamente iscritto al Msi, Pci e Psdi.
Il carcere duro e la trattativa
La strage di via D’Amelio scatena la reazione dello Stato che i mafiosi, sempre secondo De Gennaro, avevano già previsto: «Non essendo ipotizzabile che gli ideatori della strage non avessero previsto una forte reazione dello Stato da cui sarebbero derivati pesanti effetti per tutti gli affiliati, era da ritenere che il sacrificio fosse accettato in vista del conseguimento di obiettivi più remunerativi seppure distanziati nel tempo». Ma forse i capi non avevano fatto i conti con il malumore dei quadri intermedi detenuti, il 41 bis rende la vita molto difficile, i capi si sentono delegittimati, molti cedono e cominciano a collaborare e così quel 10 agosto De Gennaro scrive: «Partendo da tali premesse è chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione del 41 bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe». Spingere lo Stato alla trattativa: non dimentichiamo che la relazione viene scritta dopo gli attentati di Roma, Firenze e Milano. Ma a questo punto arrivano altri fatti misteriosi. «Subito dopo gli attentati di Via Fauro e di Via dei Georgofili – si legge ancora – sono giunti dall’interno di Cosa nostra alcuni segnali apparentemente slegati tra loro. Ci si riferisce alla richiesta di Pippo Calò di essere ascoltato dalla commissione parlamentare Antimafia sulle stragi, alla costituzione di Salvatore Cancemi e al suicidio di Antonino Gioè».
Valutazioni politiche
La relazione di De Gennaro si chiude con alcune acute analisi strategico-politiche che restano di grande attualità: «Le sottili valutazioni suigli effetti di una campagna terroristica e lo sfruttamento del conseguente condizionamento psicologico non appaiono essere semplice frutto della mente di un criminale comune: si riconosce in queste operazioni di analisi e valutazione una dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali. Verosimilmente la situazione di sofferenza in cui versa Cosa nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita a un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme di impunità ovvero a innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo e comunque per garantirsi uno spazio di sopravvivenza».

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