Marzo 28, 2024
Leonardo Guarnotta

Ho ritrovato questa intervista che ho fatto nel 2015 a Leonardo Guarnotta, magistrato che ha recentemente scritto il libro ‘C’era una volta il pool antimafia’ edito da Zolfo Editore nella collana Le storie  che potete trovare qui. Ve la ripropongo perché credo che sia ancora di grande attualità. (N.Am.)

«Il magistrato non è un giustiziere». Leonardo Guarnotta, magistrato che per anni ha lavorato fianco a fianco con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, in quello che fu il pool antimafia, ha lasciato da qualche mese la magistratura: a febbraio ha dato l’addio ai colleghi da presidente del Tribunale di Palermo. Nel palazzo dove ha trascorso oltre 50 dei suoi 75 anni mantiene una stanza, condivisa con un collega: «Faccio il pensionato – dice – e il nonno». Ripensa agli anni del suo lavoro nel pool, ai post-it scambiati con Giovanni e Paolo, alle indagini, a quello scambio continuo con i colleghi (c’era anche Peppino Di Lello che poi ha intrapreso la strada della politica) del Pool voluto da Rocco Chinnici e attuato da Antonino Caponnetto dopo la maledetta strage di Via Pipitone Federico in cui morì Chinnici.

Tra le cose principali riconducibili al metodo Falcone vi era stata quella di entrare nei santuari delle banche, e io stesso ero delegato a esaminare gli assegni che venivano sequestrati

E’ vero che lei prima di accettare l’offerta di Caponnetto si prese del tempo per pensarci?

Avevano bisogno di un quarto elemento e Caponnetto chiamò me. Io avevo già 43 anni e mi occupavo di tutto ciò di cui si occupa un magistrato (non esiste magistrato di serie A e di serie B): rapine, truffe, prostituzione e altro. A quell’età uno può pensare di fare qualcosa di diverso. In realtà fui perplesso perché comprendevo che la mia vita sarebbe totalmente cambiata: già vedevo che i miei colleghi vivevano sotto scorta, con la tutela e in qualche modo li compiangevo. Poi ne parlai con mia moglie e lei mi disse: dal modo in cui me lo stai dicendo e da come ti brillano gli occhi capisco che tu lo vuoi fare. Così chiamai Antonino e dissi: sono dei vostri. E così cominciò quella che io definisco una primavera giudiziaria che era seguita a un periodo giudiziario fosco e oscuro. E’ iniziato così quel lavoro perché si era capito che non si potevano più considerare i fatti di mafia isolati e sconnessi l’uno dall’altro. La mafia era unita e così dovevamo esserlo anche noi.

Come funzionava il pool? Intendo da un punto di vista organizzativo.

Ricordo che quando partivamo a sentire testimoni indiziati o imputati e quindi facevano i verbali con le dichiarazioni e quando tornavamo Caponnetto ci faceva fare le fotocopie e usando i post-it (io ne ho conservati un paio di Giovanni) scrivevamo e condividevamo tutto. Giovanni scriveva a me: a Leonardo per parlarne. E io scrivevo: a Giovanni per parlarne. Poi ci riunivamo il lunedì, nel bunkerino dove c’era la stanza di Falcone e quella di Paolo che poi diventò mia quando Paolo andò a Marsala. In quelle riunioni facevamo il consuntivo della settimana precedente e il preventivo della settimana che andava a iniziare: ognuno aveva il suo compito. Questo è stato il modo di vivere.

Qual era il metodo Falcone?

Tra le cose principali riconducibili al metodo Falcone vi era stata quella di entrare nei santuari delle banche, e io stesso ero delegato a esaminare gli assegni che venivano sequestrati nelle banche e là si poteva notare il passaggio di denaro tra il gotha mafioso (Riina, Provenzano, Bagarella, Michele Greco e tutti gli altri). Perché veda: l’importante era colpire la mafia nel suo patrimonio, infilare le mani nelle tasche dei mafiosi. Perché per un uomo d’onore andare in galera non è una cosa spaventosa ma quello di essere colpiti nei patrimoni no perché a loro i soldi servono per pagare le famiglie dei carcerati e per pagare gli avvocati. Ma …

Mi dica.

Io penso che Giovanni ci abbia lasciato un’eredità che è morale e professionale. Sul piano morale l’impegno quotidiano, il senso del dovere, il senso delle istituzioni, e soprattutto il dovere di fare la nostra parte ogni giorno nonostante le avversioni, gli ostacoli che si possono incontrare. Poi c’è il suo testamento professionale che riguarda il modo di fare le indagini che era un sistema di cogliere gli elementi, di valutarli, di cogliere i riscontri a quegli elementi perché si evitasse di mandare in galera qualcuno che non c’entrava niente. Riscontri che, sembra eccessivo dirlo, erano spinti fino all’estremo. Un metodo di indagine certosino, innovativo che ha dato risultati per quel momento insperati e addirittura impensabili.

Ma avete mai avuto pressioni?

La personalità di Giovanni e di Paolo era tale che pressioni non ne sono mai arrivate. Io personalmente non ne ho mai avute e penso che nemmeno Giovanni altrimenti me lo avrebbe detto. Le racconto una cosa: quando prendemmo in considerazione la situazione di Costanzo, il costruttore catanese, noi siamo stati fino all’una di notte a discutere su cosa fare: se fare un informazione di garanzia o se arrestarlo. Ma ci siamo fatti carico delle conseguenze sul piano occupazionale, c’erano in ballo migliaia di dipendenti e l’indotto, e allora sul momento non adottammo il provvedimento di arresto. Noi possiamo avere il vanto che di oltre mille indiziati nei quattro Maxi, solo uno è stato messo dentro per sbaglio.

Ha letto le dichiarazioni di Armando Spataro sui magistrati che si credono Giovanna D’Arco?

Non so a chi si riferisse il collega Spataro. Certamente è possibile che qualche magistrato non si muova sul solco creato da Giovanni a suo tempo e seguito da molti altri: investigare senza travalicare quelli che sono i limiti del nostro dovere. Noi non siamo giustizieri, siamo magistrati.

E nemmeno storici, si potrebbe aggiungere.

Lei forse si riferisce al processo che si sta celebrando in corte d’Assise, quello sulla trattativa Stato-mafia: io credo che si arriverà a una verità ma sempre una verità processuale. La Corte d’assise deciderà scriverà, sulla base degli elementi emersi in dibattimento ma se ci si vuole spingere un po’ oltre la magistratura non serve più, serve la politica. E’ la politica che può andare oltre dove noi non possiamo andare e la politica deve fare pulizia dentro se stessa.

Qual è il suo più grande rammarico della sua vita professionale. Una cosa che andava fatta…

Il sabato prima della strage di Via D’Amelio, il 18 luglio, Paolo venne a trovarmi in ufficio ma non mi trovò: era estate e quella volta avevo portato i miei figli al mare. Quando lui venne a trovarmi quel sabato (cosa che faceva spessissimo anche quando era a Marsala) mi lasciò un bigliettino che io ho trovato lunedì perché voleva parlarmi. E che si fosse trattato non di una cosa comune ma certo di una cosa importante o particolare lo dimostra il fatto che di questo lui parlò con Agnese dicendo: volevo parlare con Leonardo ma non l’ho trovato. Il rammarico mio è questo: sicuramente se lui mi avesse confidato qualcosa di importante forse non sarebbe morto o sarei morto io. Non so. Anche perché la stessa mattina lui era stato con il procuratore e con un altro collega ma a loro non aveva detto nulla. Era uscito ed era venuto da me.

Ma lei che idea si è fatto delle stragi?

Io penso che tutto possa essere racchiuso in quella famosa definizione di Falcone dopo il mancato attentato all’Addaura: sulle menti raffinatissime che aveva ordito il tutto. C’era chiaramente la volontà da parte di Cosa nostra di poter eliminare quelle persone che avevano iniziato quella prima efficiente azione di contrasto. La cosa è fin troppo evidente. Tommaso Buscetta ci disse: io parlerò ma sappiate che il conto si chiude solo in un modo. D’altra parte era confortato da quanto disse un collaborante che certe volte in seno alla Cupola si era detto da parte di Totò Riina: noi a quelli gli dobbiamo rompere le corna. Hanno cominciato con i due più esposti e poi si sono fermati perché la reazione è stata violentissima, Riina è stato arrestato e quindi per nostra fortuna tutto si è fermato. Ma non sono terminate le minacce, il vestito nero mandato a mia madre per dire che si doveva mettere a lutto e siccome sono figlio unico. Quando si entra a far parte di questo gruppo di persone uno le minacce le mette in conto. Certo non si può dire che non abbiamo paura ma l’importante è rimanere fedeli al proprio lavoro e soprattutto stare attenti perché altrimenti diventa incoscienza.

Oggi forse tutto è più complicato, i processi sono lunghi e il problema sembra essere diventato la prescrizione.

Se il primo Maxiprocesso fosse stato istruito con il nuovo codice forse sarebbe ancora il corso: 460 imputati, 460 capi di imputazione. Pensi che il processo Dell’Utri è durato 7 anni con due soli imputati, il processo Mannino è durato 5 anni. In appello il processo Dell’Utri è durato 4-5 anni. Il nuovo codice ha complicato parecchio le cose perché veda al ministero sembra che le cose non le sappiano o fanno finta di non saperle. Ora operano sulla prescrizione: più lunga, più breve. Ma c’è un articolo del codice di procedura penale in base al quale tra la prima udienza di comparizione e le altre successive devono passare non più di 11 giorni e un processo di media complessità finirebbe in tre mesi. Perché non succede? Perché non abbiamo risorse umane e materiali per poterlo fare. In questo tribunale manca sempre il 10 per cento dell’organico dei magistrati, il personale amministrativo da 419 unità è ridotto a 340 unità. E il personale amministrativo è importantissimo. Chi deve farsi carico di tutto questo? Il ministro della Giustizia.

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