Gli imprenditori devono dire no al contatto con la mafia anticipatamente. È importante denunciare se si è scoperti dalle indagini ma è ancora più importante denunciare prima che le indagini facciano scoprire la verità. È, in estrema sintesi, il pensiero di Pietro Grasso, 64 anni, dall’ottobre del 2005 a capo della Procura nazionale antimafia. «I richiami all’etica, soprattutto nell’economia – dice Grasso –, sono difficili e rimangono quasi sempre inascoltati: il perseguimento del profitto supera tutto e dunque anche i discorsi etici. Forse conviene utilizzare un sistema diverso: un meccanismo che prevede utilità da un lato e sanzione dall’altro. Lo Stato deve poter avvantaggiare chi non si avvale del sistema mafioso».
In molte aree della Sicilia continua a esserci un contatto stretto tra esponenti della mafia e uomini politici. Magari non ci sono fatti penalmente rilevanti ma il contatto è costante.
Resta forte anche e soprattutto il rapporto imprenditoria-politica-mafia. Questo triangolo è fondamentale. I fondi pubblici, soprattutto in tema di appalti di opere pubbliche, senza la collaborazione dell’imprenditore non potrebbero andare né a finanziare la politica né a finanziare la mafia. L’imprenditore si pone come un fulcro essenziale in questo sistema e dunque, a parte il rapporto che ci può essere tra mafia e politica, il titolare dell’impresa è spesso l’intermediario: è lui che poi gestisce i soldi. Il rapporto tra mafia e politica rimane ancora ancorato alla capacità dei politici, soprattutto locali, di ottenere consenso tramite l’intermediazione mafiosa senza che siano fatti particolari accordi preventivi ma sapendo di trovare un terreno favorevole. Una volta che quella persona, il mafioso, raggiunge il potere locale otterrà in cambio benefici. Il problema è quello di interrompere questo sinallagma, questo accordo, che spesse volte è implicito e purtroppo non è nemmeno espresso ed è difficile farlo diventare prova nel processo. Dovrebbe agire l’etica: io non vedo soluzioni.
Una delle inchieste della Procura di Palermo ha portato prima a un banchiere svizzero e poi a un grande avvocato di Milano. La mafia utilizza anche strumenti finanziari complessi per occultare il proprio denaro. Quanto è diffuso questo fenomeno?
Dalle nostre indagini viene fuori sempre di più che i canali di riciclaggio sono comuni a criminalità organizzata, alle attività tipicamente illecite e a quelle paraillecite, cioè il mercato grigio. Faccio un esempio: il traffico di stupefacenti produce profitti illegali ma anche l’evasione fiscale, ma anche la corruzione. Allora spesso abbiamo notato che i canali sono identici e si confonde il denaro sporco e il denaro grigio. Questo è un motivo per cui è difficile colpire il riciclaggio soprattutto all’estero: manca ancora una volontà di mettere in embargo i paradisi fiscali che invece vengono tollerati e utilizzati da tutto il mondo economico internazionale. Finché non si cercherà di eliminare questo è il sistema maggiore di occultamento di capitali leciti, illeciti e paraleciti.
I professionisti come si comportano. Mi sembra che segnalino poco ai fini dell’antiriciclaggio.
Il problema è questo: io professionista spesso ho il cliente perché vuole una consulenza illecita o paralecita. A quel punto scatta il problema: o sono disponibile alla consulenza e dunque non ho motivo di segnalare le operazioni sospette oppure non sono disponibile e non ho il cliente e dunque non c’è nulla da segnalare. Ecco il motivo di poca collaborazione.
Le misure di prevenzione patrimoniale ora vengono applicate anche agli eredi. Sta funzionando questa norma?
Già in qualche caso è stato applicata. Abbiamo dovuto fare i salti mortali per sequestrare i beni di don Tano Badalamenti e con la norma entrata in vigore nel 2008 che prevede il sequestro anche per i successori chiaramente è stato risolto il problema: si evita che gli eredi possano usufruire del comportamento accumulatorio illecito dei mafiosi. Però devo dire che c’è una certa disparità rispetto ad altre situazioni: si pensi a un mafioso che ha ricevuto beni in eredità o è proprietario di beni di cui non si può dimostrare l’illiceità. Costui finché è mafioso li gestisce da mafioso. Ed è su questa figura che bisognerebbe porre ora l’attenzione: l’attività del mafioso che gestisce questo tipo di beni, che nel corso delle misure di prevenzione vengono restituiti perché non si riesce a dimostrare l’illecita provenienza, non è secondaria. Io penso che se è dimostrata la pericolosità dei mafiosi si dovrebbe arrivare al sequestro di tutti i beni di cui il mafioso ha la disponibilità.
Si discute molto su Matteo Messina Denaro. Quale sia il suo peso in Cosa nostra: è un capo, non lo è? Ma non si rischia di mitizzarlo troppo?
A Palermo può essere solo consultato. Così come dovevano essere consultati i capi dei vari mandamenti provinciali quando la commissione funzionava. Non dimentichiamo comunque che Matteo Messina Denaro ha partecipato attivamente alla stagione stragista . È uno che si è conquistato sul campo l’autorevolezza perché poi tutti coloro che erano con lui o si sono pentiti o sono stati arrestati. È rimasto come un punto di riferimento di quella che è una stagione che è stata gestita da Cosa nostra. Ed è riuscito a mantenere un certo consenso nella provincia di Trapani: non solo riesce a comunicare ma fornisce anche partecipazioni economiche, possibilità di affari. È uno che gestisce potere, denaro e affari anche dalla latitanza.[ad#co-11]
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