Un ottimo pezzo su ‘ndrangheta e colletti bianchi tratto da l’Inkiesta.
di Francesca Chirico
Reggio Calabria – «Allora facciamo così, semplice, semplice. Questo è “A”, questo è “B”, questo è “C”. “A” è proprietario di “B” e a sua volta “B” è proprietario di “C”… Quindi “A” è proprietario di “C” (…) Chiaro il concetto? (…) Allora, se io ho “D”, va bene, mi presento lì e mi compro “B”, che cosa ho fatto? Mi sono comprato “C”, è chiaro?». Il 21 gennaio 2010, davanti alla scrivania di uno studio legale calabrese, la ‘ndrangheta è a lezione di finanza internazionale. Il corso è quello base, per principianti. A Teresa Gallico, arrestata nel giugno successivo con l’accusa di essere la “reggente” dell’omonima cosca di Palmi, il meccanismo delle società off-shore risulta un po’ ostico.
‘ndrangheta e colletti bianchi
Con i prestanome in carne ossa, no, Teresa non ha mai avuto problemi di comprendonio. Ma ormai i tempi sono cambiati, con i prestanome non si sta più tranquilli, e alla “famiglia” tocca fare il salto di qualità per riuscire ad evitare il sequestro dei beni. Per fortuna, dietro la scrivania c’è l’avvocato Vincenzo Minasi che ci mette scienza e pazienza a spiegare che, come per magia, i sei ettari di uliveto di Palmi, posseduti dalla cosca e da anni intestati ad un anziano compiacente, possono essere “spediti” nel Delaware (Usa) con una società fittizia e sfuggire così a tutti i controlli bancari. Insomma, una soluzione da “professionisti”. L’avvocato Minasi è stato arrestato nel dicembre 2011 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.
Sempre così, dalle parti della ‘ndrangheta: dove la cosca non arriva da sola, c’è qualcuno, tra i “colletti bianchi”, disposto a portarcela. In Delaware, per nascondere i beni, ma anche dentro i cantieri e nelle società partecipate; fuori dal carcere, con falsi certificati medici; nei segreti bancari e giudiziari. A confermare, come ha recentemente ribadito il neo procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, che «non è con l’arresto di un boss potente o con una condanna eccellente che si risolve il problema mafia. L’espressione suggestiva di “area grigia” indica quella zona, tra legale e illegale, nella quale si realizzano le collusioni, è il cuore centrale del fenomeno mafioso. Naturalmente la mafia è forte perché quando vuole può ricorrere alla violenza, ma spesso non ne ha bisogno». Non ne ha bisogno grazie all’esercito di volenterosi soldatini con la laurea che abitano “la terra di mezzo” e con il supporto dei quali, denuncia il Procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Michele Prestipino, «la ‘ndrangheta è lanciata alla conquista di fette sempre più ampie di mercati legali».
In cantiere con gli ingegneri
Dai piccoli appalti di strade interpoderali e comunali alle grandi opere con i colossi italiani delle costruzioni. In trent’anni i signori calabresi del calcestruzzo (quasi sempre di infima qualità) di cammino ne hanno fatto tanto, e non tutto da soli. Sono stati i boss calabresi, certo, a decidere negli anni Ottanta di investire i proventi dei riscatti dei sequestri di persona in ruspe e camion, per intercettare l’ondata degli investimenti statali per le grandi infrastrutture (come la Salerno – Reggio Calabria, la Strada statale 106 Jonica o il porto di Gioia Tauro). Ma per entrare nei cantieri, proponendosi attraverso il meccanismo del subappalto e per interposta persona, in molti casi non hanno dovuto neppure bussare troppo, trovando pure chi ha continuato a tenerceli, alla faccia dei protocolli sulla legalità e delle indicazioni delle prefetture. Per paura? Non proprio. «I responsabili della summenzionata grande impresa, abbacinati dal raggiungimento degli obiettivi economici fatti propri, nonostante gli sbandierati proclami di legalità si mostrano palesemente accomodanti in merito alle logiche criminali imperanti in questo territorio, favorendo, attraverso una gestione degli affidamenti quantomeno poco attenta, gli interessi economici delle varie organizzazioni criminali attratte dalla gestione dei grandi appalti pubblici».
La «summenzionata impresa» è la multinazionale Condotte S.p.a. e questo è uno stralcio dell’ordinanza con cui la Dda reggina ha fatto scattare, nel gennaio 2012, l’inchiesta «Bellu lavuru 2» contro le cosche Morabito-Bruzzanti-Palamara, Maisano, Rodà, Vadalà e Talia, operanti lungo il versante jonico della provincia di Reggio Calabria. Tra gli arrestati anche il direttore dei lavori dell’Anas e tre dirigenti locali della Condotte, impegnata nella realizzazione dei lavori di ammodernamento della statale 106 e, in particolare, della variante all’abitato di Palizzi. Ebbene, secondo i magistrati proprio i funzionari di Anas e Condotte avrebbero consentito alla «Imc di Stilo Costantino & C.», in odore di ‘ndrangheta, di continuare per mesi a fornire il suo calcestruzzo, nonostante la prefettura avesse messo in guardia dal rischio di infiltrazioni mafiose. «Si intende evidenziare – fu la replica di Condotte nel giorno degli arresti – come gli accadimenti oggetto di indagine riguardino fatti passati risalenti all’anno 2007, già oggetto di precedenti verifiche ed accertamenti. Da allora, Condotte, con un radicale mutamento della propria governance e con l’adozione di un nuovo modello di amministrazione, ha ritenuto di non partecipare più a procedure di gara e a nuovi appalti nel territorio calabrese, portando a completamento esclusivamente gli appalti di cui era già aggiudicataria». C’è solo da ricordare che a qualche decina di chilometri più a sud si sono comportati ben diversamente il capocantiere – un giovane geometra sicialiano – e l’amministratore della Cogip di Tremestieri, aggiudicataria dei lavori di manutenzione di un altro tratto di statale jonica: alla richiesta mafiosa di 60mila euro per lavorare in pace, hanno risposto con una denuncia e facendo scattare una sfilza di arresti (inchiesta «Affari di famiglia»). La Cogip sta ancora lavorando in Calabria.
Le scatole cinesi dei commercialisti
Calcestruzzo, quindi, ma non solo. La diversificazione delle attività è il segreto del “core business” ndranghetista. Perché fermarsi al cemento quando, grazie all’aiuto dei “professionisti”, si può arrivare ovunque, anche nel cuore della “Multiservizi” di Reggio Calabria? Le indicazioni sul sito internet del Comune di Reggio Calabria sono emblematiche: la sede legale della società partecipata, che si occupa della gestione e manutenzione del patrimonio, è a piazza San Giorgio, presso la Casa comunale dove, da qualche settimana, la commissione d’accesso inviata dal ministero dell’Interno sta verificando la sussistenza di infiltrazioni mafiose; gli uffici, invece, si trovano in Via vecchia provinciale Archi n.5. In realtà, fanno notare gli inquirenti nell’ordinanza “Astrea”, al n.5 c’è un rudere. La sede della Multiservizi si trova al vicino n.7, coinquilina di un’attività imprenditoriale che negli anni, grazie al supporto professionale di commercialisti e avvocati, ha fittiziamente cambiato intestatari e nome (Comedil srl, Sica, Recim) per occultare quelli che sarebbero i veri gestori: la cosca Tegano. Una coabitazione ovviamente non casuale: la Recim è proprietaria del 33% del capitale sociale della Gestione servizi territoriali srl, a sua volta proprietaria del 49% della Multiservizi.
Sembra di risentire la lezione dell’avvocato Minasi: «Se «A» è proprietario di «B» e «B» è proprietario di «C», B» è proprietario di «C», è chiaro?». Di certo è chiaro per i finanzieri del Gico che nel novembre 2011, insieme con alcuni presunti affiliati della cosca Tegano, hanno arrestato anche i commercialisti Giovanni Zumbo (già detenuto perché al centro di molte inchieste reggine), Roberto Emo, Maria Porzia Zumbo, l’avvocato Maria Francesca Toscano e il direttore della Multiservizi Pino Richichi. Le due donne hanno già patteggiato una pena di due anni per intestazione fittizia di beni aggravata dal favoreggiamento della ‘ndrangheta.
Gli amici bancari
«Sono andata in banca! gli ho detto io…che c’è un amico là dentro! e gli ho detto io: «Fammi subito questo estratto conto… Da allora fino ad ora! Quando l’ho preso! (…) Mamma mia!». Non capisce la finanza internazionale, ma dentro le banche Teresa Gallico non ha alcun problema. Anche lì ci sono amici disposti, per quella che sarebbe la reggente del clan di Palmi, a fare subito e senza problemi quello che i magistrati devono chiedere in carta bollata: accedere al conto corrente altrui, visionare entrate e uscite, sapere tutto delle condizioni economiche in cui versano amici e nemici. Un “favore” emblematico. La spia di quella capacità di “insider trading mafioso” che in Lombardia è stato smascherata da numerose inchieste, portando sul banco degli imputati bancari e banchieri. Secondo la procura di Milano, per esempio, proprio grazie agli “amici” delle banche del Varesotto gli affiliati lombardi del clan crotonese Farao-Marincola andavano a colpo sicuro, modulando le richieste estorsive o l’offerta di denaro a strozzo sulla base di notizie riservate sulle condizioni economiche dei risparmiatori.
Sul lettino dei medici
In affari con società create da professionisti o occultate da professionisti, orientati nelle scelte criminali da informazioni concesse da professionisti, la ‘ndrangheta non rimane sola neppure dietro le sbarre. Peppe Pelle, per esempio, da dietro le sbarre è riuscito a uscire due volte, nel 2005 e nel 2008. «Affetto da depressione, ansia con attacchi di panico, insonnia, claustrofobia, astenia, generale malinconia e molteplici disturbi neurovegetativi» o da «sindrome ansiosa depressiva attiva, con insonnia ed molteplici episodi di attacchi di panico con agorafobia», hanno sempre attestato i medici firmando negli anni una pila di certificati grossa «come un libro».
Insomma, la psiche del figlio dello storico boss di San Luca Antonio Pelle “Gambazza”, divenuto dopo la morte del padre il nuovo reggente della cosca, sarebbe a pezzi. Per la verità, ad ascoltarlo amabilmente conversare con politici e ndranghetisti nella sua casa di Bovalino, Peppe Pelle non sembrerebbe così giù di corda. E infatti, grazie alle intercettazioni ambientali disposte nell’ambito dell’inchiesta “Reale”, gli inquirenti hanno scoperto che la sua “depressione maggiore” era tutto «un bel film…pulito». Girato da medici come Francesco Moro, odontoiatra in servizio al 118 di Locri che al boss finto depresso dà istruzioni su come mettere in scena una crisi chiamando il numero d’emergenza. «Risulta come fosse una crisi, una crisi di ansia, una crisi di, di, di panico e poi vi ho fatto la terapia e vi ho dato (…) Vi ho fatto la puntura, vi ho fatto le gocce…».
Medici, consulenti di parte, certificati che certificano quello che si vuole. È un sistema ben oliato quello che descrive il pentito Samuele Lovato, nell’ordinanza Reale-Ippocrate con cui il 20 gennaio 2012 sono stati arrestati Moro e il collega medico Guglielmo Quartucci: «Il consulente è quasi obbligo diciamo che prenda le tue parti, anche se non dovrebbe essere così, però lei capisce bene che ad un consulente che tu dai tre, cinquemila euro per una perizia non può andarti contro». E la depressione è la patologia che si presta meglio perché «tu non sai mai dire che uno sta fingendo o non sta fingendo. E non è una patologia tipo un braccio rotto che tu dici se è guarito, è guarito (…) Perché non è dimostrabile e in fase successiva non è dimostrabile che ti sei ripreso da quel tipo di patologia». Non era depressione ma anoressia quella per cui Antonio Pelle “Vancheddu” è stato posto ai domiciliari dalla Corte d’Appello di Reggio, evadendo il 15 settembre 2011 dal pronto soccorso dell’ospedale di Locri dov’era stato ricoverato dopo un malore. Non c’è che dire, proprio un’impressionante capacità di ripresa.
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